Divismo
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Autore: Carlo Tagliabue
"Ideali inimitabili e al tempo stesso modelli imitabili; la loro duplice natura è analoga alla duplice natura teologica dell’eroe-dio della religione cristiana: divi e dive sono superumani nel ruolo che impersonano, umani nell’esistenza privata che vivono". Così, Edgar Morin definisce i protagonisti di un fenomeno come il d. in realtà molto antico e presente in varie epoche storiche e in differenti contesti reso planetario dalla cultura di massa, che ha visto nel cinema il suo strumento più potente e incisivo di diffusione. Di fatto, l’immediato ed enorme successo che il cinema ha conosciuto fin dai suoi esordi ha avuto come conseguenza primaria quella di costruire una propria mitologia: agli antichi eroi divinizzati, o agli dei umanizzati, si sono sostituiti, così, i moderni idoli in carne e ossa (le star appunto) che dallo schermo esercitano sullo spettatore un enorme potere di proiezione e di identificazione, elementi basilari, questi, su cui edificare quelle che potremmo definire le architetture simboliche collettive.
Il fenomeno del d. è, probabilmente, connaturato con la stessa essenza del cinema; cinema visto sia come rito di massa (Turner Victor), sia come struttura industriale complessa di larghissimo consumo. I modelli di comportamento, le mode, le mentalità, che si sono formate a livello collettivo nel corso di questo secolo, hanno avuto proprio nei divi il loro veicolo primario (Moda). Sosteneva Carl Leammle, presidente della Universal: "Il pubblico voleva delle star. Io lo sapevo; bisognava interessarlo: per questo dargli delle star da idolatrare. La fabbrica delle star è una cosa fondamentale nell’industria del film. Perché il divo tocca direttamente il pubblico. Il novanta per cento delle persone va al cinema per vedere le loro vedette preferite, gli altri ci vanno per accompagnarli".
Con la nascita, all’inizio degli anni Dieci, di quello che poi sarà chiamato star system, il fenomeno del d. segna in maniera marcante il cinema hollywoodiano. Ma non solo quello. Anche il cinema italiano dello stesso periodo al pari delle altre cinematografie europee conosce, ad esempio, tale fenomeno, incarnato soprattutto da attrici, i cui nomi sono quelli di Francesca Bertini, Lyda Borelli, Pina Menichelli, Lina Cavalieri: donne fatali e cariche di sensualità, perfettamente in linea con quella cultura dannunziana e decadente, imperante in quegli anni.
Tuttavia, è proprio nel cinema hollywoodiano che il d. acquista il suo connotato di fenomeno organizzato, a livello sia industriale che di massa, influenzando, anche con aspetti a volte inquietanti, i modelli di comportamento collettivi. Basterebbe, a questo proposito, pensare alla catena di suicidi provocata dalla morte di Rodolfo Valentino, oppure ai tanti atteggiamenti imitativi, calati nella vita quotidiana degli spettatori e derivati dagli esempi ‘simbolo’ incarnati da una star sullo schermo. Il divo, di fatto, rappresenta un ideale di vita e un modello culturale: un oggetto di consumo messo su un altare, che deve presentarsi senza macchia e senza paura, rispettare fedelmente alcune regole di comportamento, non dare scandalo, condurre una vita privata esemplare. In questo modo, il divo vive, per gli spettatori, in un ipotetico eden, dove il suo aspetto fisico non cambia mai, dove una sorta di elisir d’eterna giovinezza ferma lo scorrere degli anni, creando un’immagine fuori dal tempo. In questa operazione di ‘santificazione’ laica, un ruolo fondamentale viene giocato dall’informazione: la stampa, la radio e, successivamente, la televisione continuamente forniscono notizie sulla vita familiare dei beniamini del pubblico; notizie tutte tese a confermare una presenza simbolica, costruita e diffusa a livello di massa, dalla quale viene escluso ogni dato che possa alterare quanto ormai sedimentato nell’immaginario degli spettatori. Così un divo come Humphrey Bogart nei suoi film non invecchia mai, nonostante la sua carriera duri più di venticinque anni e grazie al ricorso a un provvidenziale parrucchino che nasconde l’avanzata calvizie: come le mummie per gli antichi egizi, anche le star di Hollywood vengono fissate nelle menti degli spettatori, nell’illusione di una effimera eternità. Quando, poi, tale prassi viene violata, o un elemento di questo culto di massa cambia, il mito è destinato a crollare e per il divo è la fine. Famoso è il caso di Roscoe ‘Fatty’ Arbuckle, popolarissimo attore comico del cinema muto, che vede stroncata la sua carriera dopo essere stato coinvolto nell’omicidio a sfondo sessuale di una giovane attrice.
Il fenomeno del d. è, come si è detto, legato strettamente alla struttura industriale del cinema e del film, visto, quest’ultimo, essenzialmente come merce. Creare un divo significa innescare un processo di consumo, attorno al quale ruotano ingenti somme di denaro. Nella Hollywood classica, il potere contrattuale di una star veniva, ad esempio, calcolato sul numero delle lettere ricevute ogni giorno dai propri fan (per alcuni più di mille al giorno); la stessa industria cinematografica dipende dalla popolarità degli attori; spesso, alcune crisi produttive della macchina cinematografica americana sono dovute alle eccessive richieste economiche avanzate dai divi. La carta vincente del d. è comunque quella della standardizzazione: il divo deve interpretare sempre personaggi perfettamente riconoscibili e appartenenti a un cinema di genere, dove ogni star ha sempre già il suo ruolo ben determinato.
Nel corso degli anni, i divi hanno sempre incarnato bisogni e aspettative collettivi bisogni e aspettative spesso indotti e l’industria cinematografica si è sempre adeguata a tali esigenze: dagli anni Trenta e Quaranta, dove trionfavano attori come Gary Cooper, Clark Gable, Greta Garbo, agli anni Cinquanta con Marlon Brando, James Dean, Marylin Monroe, fino agli anni Sessanta, in cui la crisi del sistema hollywoodiano riesce a far diventare divo l’antidivo, un volto, cioè, lontano dai canoni di bellezza fino ad allora dominanti: è il caso di attori come Dustin Hoffman o Al Pacino.
L’avvento e la rapida diffusione di un mezzo come la televisione hanno ridotto di molto la consistenza di tale fenomeno, da tutti i punti di vista. Innanzi tutto, la popolarità di un divo si è molto contratta in senso temporale: raramente si è famosi e presenti nel cosiddetto immaginario collettivo (Immaginario) per più di un decennio; si sono anche ridimensionati i riti di un culto, ormai officiato con molta velocità e reso meno mitico dalla enorme quantità di informazioni, a cui il pubblico è sottoposto. La prova di tutto questo è che una volta si diventava famosi al cinema e poi si passava in televisione come guest star; ora è sempre più spesso la televisione a rendere famosi, per preparare il lancio verso il successo sul grande schermo. L’unico dato certo è che la mitologia cinematografica che vede nel suo Olimpo star eternate nei volti di una Marylin Monroe, o di altri attori prodotti dello star system, sembra essere destinata a durare nel tempo e ad attraversare le generazioni. La logica da fast food delle immagini, che domina l’epoca contemporanea, non sembra essere in grado di fare altrettanto: Leonardo Di Caprio o Sabrina Ferilli riusciranno a entrare anch’essi nel mito, o cadranno presto nell’oblio per essere rapidamente sostituiti da altrettante comete passeggere?
C’è da aggiungere che il fenomeno del d. non appartiene oggi solo al mondo del cinema, ma pervade l’universo delle immagini tout court, ricalcando un po’ i medesimi passaggi intervenuti nella settima arte nel corso del tempo. Così, anche per i divi della canzone, della cronaca, o della politica sembra ripetersi la stessa condizione rinvenibile nel cinema. Alcuni eventi più o meno recenti, legati alla civiltà delle immagini, insegnano: la tomba di Elvis Presley, dopo tre decenni dalla sua morte, è ancora meta di pellegrinaggio; quella di Lady Diana, esaurita la prima ondata emotiva legata alla sua tragica fine, è ora disertata dai turisti; con tutte le conseguenze economiche del caso.
Il fenomeno del d. è, probabilmente, connaturato con la stessa essenza del cinema; cinema visto sia come rito di massa (Turner Victor), sia come struttura industriale complessa di larghissimo consumo. I modelli di comportamento, le mode, le mentalità, che si sono formate a livello collettivo nel corso di questo secolo, hanno avuto proprio nei divi il loro veicolo primario (Moda). Sosteneva Carl Leammle, presidente della Universal: "Il pubblico voleva delle star. Io lo sapevo; bisognava interessarlo: per questo dargli delle star da idolatrare. La fabbrica delle star è una cosa fondamentale nell’industria del film. Perché il divo tocca direttamente il pubblico. Il novanta per cento delle persone va al cinema per vedere le loro vedette preferite, gli altri ci vanno per accompagnarli".
Con la nascita, all’inizio degli anni Dieci, di quello che poi sarà chiamato star system, il fenomeno del d. segna in maniera marcante il cinema hollywoodiano. Ma non solo quello. Anche il cinema italiano dello stesso periodo al pari delle altre cinematografie europee conosce, ad esempio, tale fenomeno, incarnato soprattutto da attrici, i cui nomi sono quelli di Francesca Bertini, Lyda Borelli, Pina Menichelli, Lina Cavalieri: donne fatali e cariche di sensualità, perfettamente in linea con quella cultura dannunziana e decadente, imperante in quegli anni.
Tuttavia, è proprio nel cinema hollywoodiano che il d. acquista il suo connotato di fenomeno organizzato, a livello sia industriale che di massa, influenzando, anche con aspetti a volte inquietanti, i modelli di comportamento collettivi. Basterebbe, a questo proposito, pensare alla catena di suicidi provocata dalla morte di Rodolfo Valentino, oppure ai tanti atteggiamenti imitativi, calati nella vita quotidiana degli spettatori e derivati dagli esempi ‘simbolo’ incarnati da una star sullo schermo. Il divo, di fatto, rappresenta un ideale di vita e un modello culturale: un oggetto di consumo messo su un altare, che deve presentarsi senza macchia e senza paura, rispettare fedelmente alcune regole di comportamento, non dare scandalo, condurre una vita privata esemplare. In questo modo, il divo vive, per gli spettatori, in un ipotetico eden, dove il suo aspetto fisico non cambia mai, dove una sorta di elisir d’eterna giovinezza ferma lo scorrere degli anni, creando un’immagine fuori dal tempo. In questa operazione di ‘santificazione’ laica, un ruolo fondamentale viene giocato dall’informazione: la stampa, la radio e, successivamente, la televisione continuamente forniscono notizie sulla vita familiare dei beniamini del pubblico; notizie tutte tese a confermare una presenza simbolica, costruita e diffusa a livello di massa, dalla quale viene escluso ogni dato che possa alterare quanto ormai sedimentato nell’immaginario degli spettatori. Così un divo come Humphrey Bogart nei suoi film non invecchia mai, nonostante la sua carriera duri più di venticinque anni e grazie al ricorso a un provvidenziale parrucchino che nasconde l’avanzata calvizie: come le mummie per gli antichi egizi, anche le star di Hollywood vengono fissate nelle menti degli spettatori, nell’illusione di una effimera eternità. Quando, poi, tale prassi viene violata, o un elemento di questo culto di massa cambia, il mito è destinato a crollare e per il divo è la fine. Famoso è il caso di Roscoe ‘Fatty’ Arbuckle, popolarissimo attore comico del cinema muto, che vede stroncata la sua carriera dopo essere stato coinvolto nell’omicidio a sfondo sessuale di una giovane attrice.
Il fenomeno del d. è, come si è detto, legato strettamente alla struttura industriale del cinema e del film, visto, quest’ultimo, essenzialmente come merce. Creare un divo significa innescare un processo di consumo, attorno al quale ruotano ingenti somme di denaro. Nella Hollywood classica, il potere contrattuale di una star veniva, ad esempio, calcolato sul numero delle lettere ricevute ogni giorno dai propri fan (per alcuni più di mille al giorno); la stessa industria cinematografica dipende dalla popolarità degli attori; spesso, alcune crisi produttive della macchina cinematografica americana sono dovute alle eccessive richieste economiche avanzate dai divi. La carta vincente del d. è comunque quella della standardizzazione: il divo deve interpretare sempre personaggi perfettamente riconoscibili e appartenenti a un cinema di genere, dove ogni star ha sempre già il suo ruolo ben determinato.
Nel corso degli anni, i divi hanno sempre incarnato bisogni e aspettative collettivi bisogni e aspettative spesso indotti e l’industria cinematografica si è sempre adeguata a tali esigenze: dagli anni Trenta e Quaranta, dove trionfavano attori come Gary Cooper, Clark Gable, Greta Garbo, agli anni Cinquanta con Marlon Brando, James Dean, Marylin Monroe, fino agli anni Sessanta, in cui la crisi del sistema hollywoodiano riesce a far diventare divo l’antidivo, un volto, cioè, lontano dai canoni di bellezza fino ad allora dominanti: è il caso di attori come Dustin Hoffman o Al Pacino.
L’avvento e la rapida diffusione di un mezzo come la televisione hanno ridotto di molto la consistenza di tale fenomeno, da tutti i punti di vista. Innanzi tutto, la popolarità di un divo si è molto contratta in senso temporale: raramente si è famosi e presenti nel cosiddetto immaginario collettivo (Immaginario) per più di un decennio; si sono anche ridimensionati i riti di un culto, ormai officiato con molta velocità e reso meno mitico dalla enorme quantità di informazioni, a cui il pubblico è sottoposto. La prova di tutto questo è che una volta si diventava famosi al cinema e poi si passava in televisione come guest star; ora è sempre più spesso la televisione a rendere famosi, per preparare il lancio verso il successo sul grande schermo. L’unico dato certo è che la mitologia cinematografica che vede nel suo Olimpo star eternate nei volti di una Marylin Monroe, o di altri attori prodotti dello star system, sembra essere destinata a durare nel tempo e ad attraversare le generazioni. La logica da fast food delle immagini, che domina l’epoca contemporanea, non sembra essere in grado di fare altrettanto: Leonardo Di Caprio o Sabrina Ferilli riusciranno a entrare anch’essi nel mito, o cadranno presto nell’oblio per essere rapidamente sostituiti da altrettante comete passeggere?
C’è da aggiungere che il fenomeno del d. non appartiene oggi solo al mondo del cinema, ma pervade l’universo delle immagini tout court, ricalcando un po’ i medesimi passaggi intervenuti nella settima arte nel corso del tempo. Così, anche per i divi della canzone, della cronaca, o della politica sembra ripetersi la stessa condizione rinvenibile nel cinema. Alcuni eventi più o meno recenti, legati alla civiltà delle immagini, insegnano: la tomba di Elvis Presley, dopo tre decenni dalla sua morte, è ancora meta di pellegrinaggio; quella di Lady Diana, esaurita la prima ondata emotiva legata alla sua tragica fine, è ora disertata dai turisti; con tutte le conseguenze economiche del caso.
Bibliografia
- ALBERONI Francesco, L'élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Vita e Pensiero, Milano 1963.
- BERNARDINI Aldo, Cinema muto italiano, Laterza, Roma/Bari 1980-1981 (Vol. 3 Arte, divismo e mercato 1910-1914).
- BUXTON David, Il rock: star-system società dei consumi, Lakota, Roma 1987.
- CAMERINO Vincenzo, Il divismo a Hollywoo. Primordi e dintorni, Barbieri, Manduria (TA) 2000.
- CASTELLO Giulio Cesare, Il divismo: mitologia del cinema, ERI, Torino 1957.
- KERMOL Enzo - TESSAROLO Mariselda, Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo, CLEUP, Padova 1998.
- SARTORI Carlo, La fabbrica delle stelle. Divismo, mercato e mass media negli anni '80, Mondadori, Milano 1983.
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Note
Come citare questa voce
Tagliabue Carlo , Divismo, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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